...ci vediamo alla Quercia...

...ci vediamo alla Quercia...

mercoledì 1 dicembre 2010

Le prove...


Se la vita ci mette alla prova non capita a caso.
Sto combattendo e questo mi toglie il tempo da dedicare ad un grande piacere come scrivere, ma vi prometto che alla fine di questa battaglia avrò moooolto da raccontare!
Spero a prestissimo...

venerdì 22 ottobre 2010

L'abito non fa il monaco...


E dopo gli ultimi post troppo seri, vorrei mostrarvi tre foto che confermano la complice amicizia tra mio fratello Giovanni e l'allora mio compagno, pseudo-fidanzato Giuseppe, in riferimento al post intitolato "Noi siamo cittadini del cielo" del 22/09/2010.
Ho impiegato circa un mese per convincere Giuseppe che non c'è niente di male a pubblicarle, che sono simpatiche e mi aiutano a rafforzare quelle immagini che mentalmente creiamo quando leggiamo dei racconti.
Insomma, alla fine ha ceduto anche perchè Giovanni non si è mai opposto, anzi, sembra divertito.
Queste foto li ritraggano appena terminato il trasloco di Giuseppe in casa di Giovanni.
Perchè, mentre lo sfigato numero uno (Giuseppe) si accingeva a riempire la sua nuova stanza dei suoi oggetti e abiti, lo sfigato numero due(Giovanni) aveva deciso di fare una bella scrematura di tutti quegli indumenti che erano rimasti sepolti nel suo armadio da alcuni anni a testimonianza del suo vecchio matrimonio naufragato e dell'uomo che era, costretto ad indossare quegli orrendi pigiamini!!!
Giuseppe si piegava in due dal ridere osservando i maglioncini stile college, i pantaloni con la vita alta alla Fantozzi e le scarpe comode e impersonali da pensionato.
Rideva in faccia all'amico e pretendeva di mascherarsi come testimoniano le foto, se lo poteva premettere solo perchè non aveva con sè lo stesso genere di abiti, infatti li aveva eliminati solo la settimana prima!
Io stavo dall'altra parte della macchina fotografica, li ho visti ridere, giocare, confidarsi e mi sono spanciata dalle risate.
Sono convinta che ce ne fossero di più di foto, Jose le avrà fatte sparire!
Buon fine settimana a tutti, augurando che nel vostro armadio ci siamo sempre abiti che vi somigliano e di avere il coraggio di buttare quelli che non vi somigliano affatto!

giovedì 14 ottobre 2010

La vita è la realizzazione di un sogno dell'adolescenza.

Ho sempre fatto grandi sogni, a partire dall'amore, quello con la A maiuscola, la consapevolezza, la verità, incontrare il Maestro, la Pace nel mondo, la salvezza della Natura, diventare scrittrice, viaggiare per il mondo, parlare lingue diverse, regalare ai miei genitori la casa dei loro sogni, vivere sempre in luoghi dove potevo avere: un gatto, una coppia di pastori tedeschi e una tartaruga da terra, e tanti altri che l'elenco potrebbe assomigliare a quello del telefono di Roma.
Mi guardo allo specchio e mi chiedo se somiglio almeno un po' alla giovane sognatrice che ero.
Nello specifico cerco di capire se oggi rispecchio ancora quei sogni, se nella mia storia personale mi sono impegnata abbastanza per realizzarli e soprattutto se sono il risultato della realizzazione di un sogno dell'adolescenza.
Non ancora.
I miei sogni evolvono con me e seguono l'andamento della vita che ho deciso di fare, ma rimangono comunque grandi sogni...grandi sogni.
Se cercassi di spiegare dal punto di vista pratico le ragioni per le quali, dopo tanto vagabondare, io e Giuseppe abbiamo acquistato due capanni agricoli in Toscana, abbiamo deciso di ristrutturarli e di farne poi una Country House o B&B che dir si voglia, la descrizione mi verrebbe facile, ma dietro a tutto questo c'è un grande sogno che sottotitola il luogo di ospitalità che creeremo come un "ristoro dell'anima".
Pensate a questo, a quanto farebbe comodo poter ristorare un po' i nostri pensieri più intimi, avere il tempo e la dimensione adatta per ristabilire le priorità, poter sognare e riavvicinarci all'anima delle persone che amiamo.
Cosa c'è in un "ristoro dell'anima"? Probabilmente le stesse cose che ci sono in tutti gli altri luoghi di ospitalità, ma in più c'è la predisposizione ad andare oltre le apparenze.
Non c'è niente di complicato o esoterico è solo la riconsiderazione di un aspetto fondamentale della nostra vita che il tram tram quotidiano spesso ci costringe ad escludere con conseguenze catastrofiche per le relazioni umane (è sufficiente ascoltare la cronaca dei telegiornali per capire a cosa mi riferisco) è il linguaggio dell'anima.
Decidere di passare un po' di giorni in un "ristoro dell'anima" è ricordare che ne abbiamo una, magari un po' troppo provata, imbavagliata e chiusa da troppo tempo in uno sgabuzzino buio della mente, ma ammettiamo che esiste ancora e siamo disponibili a curarla, guarirla e attendere che non sia più terrorizzata, affinchè possa di nuovo comunicare con noi e ci restituisca intatta la forza di sognare, il coraggio di credere e la dignità del vivere.
Io non so come la pensate voi, ma l'esistenza dell'anima è universale ed io ammetto che sognare di avere anche un piccolo ruolo nella sua riscoperta globale non è roba da poco, ma sono nata sognatrice ed ho incontrato un sognatore, cosa vi aspettavate da due zingari vagabondi col naso sempre rivolto al cielo?

domenica 3 ottobre 2010

Le decisioni.

La volta successiva che prendemmo una decisione tosta in relazione alla nostra convivenza fu ad un paio d'anni dalla vita in comune a Bissau.
Mancavano pochi mesi al compimento dei quarant'anni di Jose ed io fervevo d'impazienza per i preparativi della sua festa di compleanno.
In realtà non è che potessi inventarmi chissà cosa, abitavamo pur sempre nella capitale del sesto paese più povero al mondo, inoltre, dettaglio da non trascurare, ancora non conoscevamo personalmente e non frequentavamo la tanto famigerata dottora Fanny (terzo personaggio più importante e chiacchierato dopo il Presidente e i due Vescovi) con la quale, negli anni successivi avremmo inventato feste indimenticabili a base di pizza, lasagne semi-italiane con ragù di gazzella, maialino al forno alla cubana contornato di polenta di Mario e Morena, il tutto spruzzato di cuba libre e musica latino-americana.
Ad un certo punto della festa Padre Pedro estraeva il suo vecchio violino e suonava le tristissime arie da conservatorio, Ido e Mundy, approfittando d'un momento di distrazione del prodigio riaccendevano la radio per ballare la salsa e il merengue e se avevamo fortuna la serata si concludeva con la “Gringa” che trascinava Fanny in una danza da locali degni de l'Havana.
La sera del compleanno invece mangiammo una crema ai funghi “ospedaliera” della knorr e ali di “pollo a dieta” al curry, in compagnia dei padri della missione e di Marco, amico d'avventura africana che aveva sgraffignato dall'inaccessibile dispensa “un litro di quello buono” che sorseggiammo alla luce fioca delle batterie in assenza forzata di musica.
L'unica nota inconsueta della serata era che avevo costretto Jose a scrivere coi pennarelli sul muro un quaranta di almeno un metro, tutto intorno avevamo scarabocchiato auguri, disegni frasi e firme, come fosse un grande biglietto d'auguri che Giuseppe abbattè a martellate.
Non eravamo impazziti di noia, semplicemente avevamo deciso d'unire cucina e sala con un arco e il giorno dopo sarebbero iniziati i lavori.
La sera stessa “scartando” il suo regalo Giuseppe scoprì le vere intenzioni della sua compagna -Jose, ho pensato seriamente al tuo regalo ed ho deciso che, per i tuoi quarant'anni...-pausa ad effetto -...voglio regalarti un figlio.-
Beh, questo intento merita un paio di riflessioni: la prima è che sarebbe stato più onesto iniziare questo post con la seguente frase: la volta successiva che PRESI una decisione tosta in relazione alla nostra convivenza... e la seconda è che Jose non era proprio così pronto, dato che la sua risposta fù: -Si va beh, possiamo riparlarne tra un paio di mesi?- fortunatamente Giovanni abitava a debita distanza.
Cosa sarebbe cambiato da lì a un paio di mesi non mi era chiaro, so solo che ad un certo punto, una notte, prima di spegnere la luce, gli sventolai la scatola delle pillole contraccettive sotto il naso e buttandole nel cestino esclamai: - Buon compleanno Jose, stasera scade il tuo regalo, se decidi di ritirarlo è a tuo rischio e pericolo-
Dopo due anni di capriole amorose, tecniche d'inseminazione felina rubate alla nostra sapiente amica gatta Taty che sfornava micini a raffica e risate d'amanti clementi inclini alla sperimentazione fantasiosa, nacque Andrea e due anni dopo Sergio.
Sì, diciamolo, la vita di noi esseri umani è costellata di decisioni, talune clamorosamente errate, altre semi-azzeccate, ma la decisione che non ci farà mai più soffrire non sembra esistere, sarebbe come azzeccare domani la sestina vincente del superenalotto con una giocata da un euro!
Sta di fatto che, grazie ad una di queste scelte non proprio azzeccate, mi ritrovai da sola per un anno, a crescere i miei due pargoli di due anni e l'altro quattro mesi di vita.
Periodo da dimenticare se non fosse che, durante i periodi più difficili, io e Jose diamo il meglio di noi e bastonandoci a vicenda ci rimettiamo in carreggiata e alla fine partoriamo che cosa? Una nuova decisione che stravolgerà la nostra vita.
-La prossima settimana torno a casa e ci rimango per due settimane, prepara le valigie che partiamo alla ricerca della casa adatta a realizzare il nostro sogno.-
Stavolta era toccato a lui mettermi in un angolo e costringermi a riprendere le redini della nostra esistenza e questo m'infastidiva, tanto più che mi dava ordini dal Congo, ma sapevo che aveva ragione, che una volta enunciato il sogno non si può perdere troppo tempo con le mani in mano aspettando che ciò che desideriamo si realizzi per grazia ricevuta, bisogna alzarsi le maniche, sporcarsi le mani ed essere pronti a soffrire, fino a sanguinare di dolore, perchè l'Universo veda con quanta tenacia sappiamo condire i nostri sogni.
Dunque la decisione era presa, da quel momento in avanti avremmo impiegato tutte le nostre energie alla ricerca del posto adatto a piantare finalmente la nostra amata Quercia, ma del Sogno, di questo vi voglio parlare la prossima volta.

mercoledì 22 settembre 2010

Noi siamo cittadini del cielo.


"Che triste, mi spiace tanto vederlo così affranto, era talmente sereno e felice fino ad un quarto d'ora fà.
Anch'io mi sentivo così splendidamente euforica e leggera, merito di questa terra.
E' sufficiente dare uno spiraglio al primo mondo che lui t'inghiotte, rompe ogni cosa, ti rimette in riga e, facendo naufragare il sogno, ti ricorda in maniera brutale che tra una settimana dovremo rimettere i piedi per terra.
Non è giusto, se solo potessimo rimanere più a lungo...magari tornare...magari glielo dico...no ferma, pensa!"
Ma la mia bocca aveva già dato fiato a sufficienza per gonfiare le vele e salpare dal porto in meno d'un istante.
-Giuseppe, m'è venuto un pensiero forte e possente che ti devo comunicare a costo di sembrarti pazza - inghiottii guardandolo negli occhi, dietro di noi, su per il vialetto che dalla comunità dei padri portava al dormitorio, si vedeva un pezzetto d'oceano Atlantico, era un'eccezione, dovevano incontrarsi una serie di fattori affinchè questo accadesse ma allora non lo sapevo.
Giuseppe aveva appena ricevuto una telefonata dall'Italia, si trattava di lavoro, la sua società stava affrontando alcune difficoltà che comunque non avrebbe potuto risolvere da Bissau e non poteva nemmeno rientrare prima, quindi chi decise di rovinargli la vacanza lo fece col semplice intento di rovinargliela con mera cattiveria.
-Io ho pensato...cioè...pensi che sia impossibile mollare tutto quello che siamo e facciamo in Italia per poter dedicare un anno o due della nostra esistenza al volontariato qui In Guinea Bissau?
Al nostro ritorno potremo sempre reinventarci e cominciare a costruire la nostra vita daccapo, magari assieme.-
In realtà questa era la seconda volta che gli proponevo di considerare la possibilità di condividere la vita.
La prima volta avevo poco più di vent'anni e contro ogni mia ambizione gli avevo proposto di convivere ma più perchè lo vedevo disperato e senza fissa dimora che non per mia maturità, comunque questo non giustifica la sua risposta.
Mi disse di volerci pensare, per il bene d'entrambe.
Questo sì che era maturo e consapevole, non fosse che, una sera a casa mia s'incontrò con il mio fratellone maggiore, Giovanni, fù colpo di fulmine, amiconi dal principio.
I miei genitori avevano chiesto a Giovanni d'intromettersi un po' nella mia vita privata perchè sapevano che frequentavo un uomo molto più grande di me, lui li aveva esauditi e mi chiese di conoscere Giuseppe.
Ne fui entusiasta, nemmeno sospettavo della sua promessa di spionaggio, il doppiogiochista, e lo feci scendere con me la sera in cui, a sorpresa, Giuseppe s'era ossigenato i capelli per vincere una scommessa.
Io ero allibita, con un sorriso tirato gli presentai mio fratello che fece finta di niente, ma lo conoscevo bene e non m'era sfuggito quello sguardo di stupore misto a disgusto che disegnava chiaramente una nuvoletta sulla sua testa con dentro scritto: "QUESTO E' UN IMBECILLE, ORA CHE DICO AI MIEI?"
Qualche mese più tardi e al rientro dell'emergenza ossigenata, lo presentai anche ai miei genitori.
Giovanni e Giuseppe nel frattempo s'erano incontrati altre volte e mi faceva piacere vedere che andavano d'accordo, anzi, non erano solo compatibilmente legati a me, ma intuivo una sorta di legame tra loro dal quale mi sentivo vagamente minacciata, non sapendone perchè, fino a quella sera in cui Giuseppe, ospite a casa nostra disse apertamente che stava cercando casa e Giovanni propose -Perchè non vieni da me? Il mio appartamento è grande, ho una camera in più che non uso.-
Io me ne stavo seduta in quel maledetto angolo della cucina che evito sempre perchè mi fa sentire in gabbia e da quel buchetto ricordo d'aver pensato: "Adesso glielo dice, i miei sverranno, sono molto giovane per una convivenza e lo conoscono da pochissimo ma sono pronta a lottare."
E lui rispose:-Allora è fatta. Lunedì faccio il trasloco. Luciana sei contenta? Diventiamo vicini!-
Non mi dilungherò oltre sulla vicenda, la convivenza tra Giuseppe e Giovanni è tutta un'altra storia.
Ritornando alla vista oceano Atlantico ricordo lo sguardo di Giuseppe alla mia proposta, da interrogativo si fece deciso in un soffio e rispose (almeno stavolta la risposta era esatta) -Perchè no?-
Ci sedemmo sul muretto, così bene come solo a noi riesce di fare, fantasticando tutto il tempo su come proporci ai padri, su come avremmo sciolto i legami col mondo che ci stava attendendo e che quello stesso pomeriggio aveva violentato così prepotentemente l'unico spiraglio di vita che da anni non riuscivamo più a vivere.
Intanto l'oceano ci osservava in silenzio e a nostra insaputa ascoltava ogni parola,la sera, quando noi ci decidemmo a rientrare in casa, attese la Luna e le riferì ogni nostra intenzione, la mattina dopo lei rimase pallida nel cielo e mi sembrò di sentirla chiacchierare fitto fitto col Sole che ne parlò all'Universo stesso e l'Universo fece tutto quello che era in suo potere affinchè i nostri desideri diventassero un decreto e nonostante tutte le difficoltà e tutti quelli che tentarono di tenerci in Italia, esattamente un anno dopo io e Giuseppe atterrammo di nuovo all'aeroporto di Bissau.
Stavolta ad accoglierci c'era la nostra casetta, situata all'entrata della missione dei padri e per dover di cronaca, Giovanni non ci seguì in quest'avventura, ma venne ospite da noi un'estate.
Ricordo questo come l'attimo più intenso di tutta la nostra avventura africana, il più bello, il più magico, quello in cui decidi della tua vita e ti butti nel vuoto e speri, anzi sai, che l'Universo stesso non ti lascerà cadere.
Con i guineensi ho condiviso tantissime esperienze, da loro ho imparato molto ma più di tutti cerco di non scordarmi l'insegnamento per me più importante, che ai meno accorti svelerà poco o niente, ma a me ricorda chi sono, da dove vengo e soprattutto la meta : NOI SIAMO CITTADINI DEL CIELO.
Grazie ai miei amici della Guinea per sempre nel mio cuore, grazie all'Universo al quale ho affidato il mio prossimo sogno.

mercoledì 15 settembre 2010

Finire in GB (Guinea Bissau)

Aveva ventidue anni quando, per la prima volta, andò in vacanza con un uomo, il suo fidanzato, anche se lei mai e poi mai l’avrebbe definito tale.
Fidanzamento le ricordava qualcosa che terminava con un matrimonio e le veniva l’orticaria, scartato dunque “fidanzato” vagliava l’opportunità di chiamarlo “amico”.
Certo l’amicizia era buona, complice e intima, magari un tantino troppo intima per essere definito solo un amico.
"Compagno" le ricordava il comunismo e gli amici di suo padre che si salutavano chiamandosi a quel modo, quando, negli anni ottanta Brusa, il “zitellonissimo” testimone di nozze dei suoi genitori, l’aveva prenotata come sposa.
Quel tipo la terrorizzava quando, entrando in casa con un’espressione tra il divertito e il satanico, urlava “Questa me la sposo io quand’è grande, tienimela da parte.”
Forse proprio per questo, e i geni ribelli da femminista già innestati e guardinghi, una notte la piccola di quattro anni si svegliò tra strilla, sudori freddi e pianti, la madre corse da lei e seduta sul lettino le chiese con amore cosa fosse successo: “Mamma io non voglio sposarmi”, le rispose tra i singhiozzi disperati.
Brusa poi, alla fine si sposò, fu uno dei primi che andò in Ucraina a commissionarsi la sposa, poi una seconda e non fece in tempo a combinare le terze nozze perché la strada decise che il suo viaggio sulla terra doveva terminare lì, dove le mogli sembravano crescere sulle piante.
Quindi, pur senza una definizione certa del suo amore, la giovane donna di nome Luciana si buttò alle spalle tutte le ansie e perplessità e partì con Giuseppe il suo amico molto intimo, compagno d’avventura, fidanzato solo col senno di poi, ma molto poi.
L’anno successivo ripeterono l’esperienza e come le coppie collaudate decisero d’andare nello stesso posto dell’anno precedente, mai errore fù più grave.
Entrambe erano anime in ricerca, mai completamente tranquilli perché, come tutti quelli che cercano, quando trovano hanno già in mente qualcosa di più bello e misterioso da studiare, cercare e stanare, ovunque sia, dentro o fuori il loro cuore.
La vacanza eguagliò in bellezza la prima, le spiagge erano ancora splendide, le avventure in macchina a cercare la sagra dell’oliva ascolana in un paesino sperduto dal nome impronunciabile, per poi perdersi in campagne straordinarie vista mare e mangiare pane e formaggio litigando con Peggy perché non si pappasse tutto, condirono quei meravigliosi sette giorni creando poi aneddoti che si divertirono a raccontare sino ai giorni nostri, ma non era sufficiente.
Sentivano la necessità d’impiegare meglio il loro tempo, Giuseppe passava 358 giorni l’anno a rincorrere bit e byte, Luciana s’era ridotta ad emozionarsi davanti a un mastrino che a fine anno si chiudeva con saldo zero e sentivano di non essere solo quello.
Dentro le loro corazze, grattando solo un poco l’armatura, si poteva intravvedere che c’era di più, che il loro animo avventuroso palpitava burrascoso.
Per quanto tempo, un’anima in ricerca, può ignorare le rondini che ha nel cuore?
L’estate a seguire cambiarono registro e si trovarono a fare volontariato con dei padri cattolici in Guinea Bissau, la terza classe del terzo mondo. (continua)

giovedì 9 settembre 2010

Il cavallo d'oro.


Conobbi Giuseppe che avevo più o meno quindici anni.
Mi piacque subito, all'istante, fù un istante tipo: "Ah, eccoti finalmente..." da film.
Ma...c'erano tanti ma.
A partire dal fatto che era un uomo ed io un'adolescente brufolosa e incasinata.
Non sapevo esattamente quanti anni avesse, lo vedevo arrivare in ufficio vestito di tutto punto con abito e cravatta, persino d'estate, quando i nostri quadranti in PVC trasparente superavano i trentacinque gradi e non sudava, l'extraterrestre!
Avevo appena preso la decisione di frequentare la scuola serale di ragioneria e mi ero ripromessa d'impegnarmi veramente, nonostante la scemenza dell'età, le amicizie trascinanti, gli ormoni in subbuglio e la fatica d'un lavoro a tempo pieno; e il cuore mi aveva tradito ancor prima d'iniziare l'anno scolastico!?! Imperdonabile.
Dopo pochi giorni le lezioni cominciarono e, sorpresa, sentii le palpitazioni guardando il professore di lettere che doveva avere più o meno la stessa età di Giuseppe.
Mi servì a ridimensionare una cotta che altrimenti avrei preso troppo sul serio e così mi buttai a capofitto nella mia nuova vita da adolescente responsabile.
Barcella, così lo chiamavo, lo vedevo periodicamente.
Durante i cinque anni di ragioneria serale, mi presi cotte per un numero imprecisato e in qualche caso feci lo strappo alla regola numero 1 che mi avrebbe permesso di sopravvivere ad un quinquennio piuttosto impegnativo NIENTE RAGAZZI, e uscii con qualcuno, generalmente durante l'estate.
Nonostante tutto questo non smettevo d'emozionarmi all'arrivo del Barcella.
Il mio ufficio, anzi, l'ufficio-campionario, dove passavo un terzo della mia sconvolgente adolescenza, dava sull'entrata al piano terra e fortunatamente alle pareti, al di là del pvc, c'erano delle grandi vetrate con vista cielo e collina, quello che noi grumellesi chiamiamo affettuosamente il Monte.
Sarei morta soffocata dai miei sogni imprigionati in una ditta tutta cemento se non avessi avuto almeno quel francobollo di mondo esterno al quale affidare i miei pensieri di libertà.
Stavo studiando la composizione di una cartella espositiva di bottoni, vi appoggiavo i cerchietti nelle due versioni due e quattro fori, il primo in ordine crescente di lineato, dal 24 al 42 il secondo in ordine decrescente, sceglievo i colori naturali e i tinti, li accostavo per gradazione o contrapposizione, ormai ero pratica, ma ci voleva sempre un certo lasso di tempo e poi...alzavo lo sguardo e vedevo avvicinarsi il cavallo d'oro.
Se ero sola mi prendevo tutto il tempo per osservare il Barcella parcheggiare il suo cavallo, se ne stava qualche minuto in auto, raccoglieva documenti, si specchiava nel retrovisore e sistemava i capelli, mi capitò di vederlo pettinarseli addirittura con un pettine e quando si sentiva pronto scendeva lentamente dall'auto, il Lord!
Con tutta tranquillità estraeva il cappotto appoggiato sul sedile posteriore, lo indossava come fosse un mantello, chiudeva ogni singolo bottone verificando che non ci fosse un pelo sul tessuto poi si controllava nei finestroni a specchio e solo allora faceva la sua entrata.
Io nel frattempo mi ero appoggiata al bancone scombussolando tutta la cartella che non avevo ancora cucito e mi rodevo tra i sospiri e il desiderio di vedere inciampare quell'uomo che, vero, mi affascinava, ma furba come la volpe ne esaltavo ostinatamente i difetti, come per quell'uva così invitante ma irraggiungibile.
Anzitutto cos'era quella scatola con le ruote? E poi, lasciando perdere il tipo di auto spigolosa come lui, come aveva potuto sceglierla di quell'orrendo colore?
Sì perchè il Barcella viaggiava su una Volvo 760 color CHAMPAGNE!
Insomma, una macchinina che non dava assolutamente nell'occhio.
Non sapevo niente di lui, ma mi ero fatta un'idea precisa di com'era da quel che potevo vedere: pieno di sè, egocentrico, altezzoso, vanitoso e sicuramente un figlio di papà.
Alla sua insaputa già allora facevo immaginazione creativa e talvolta, presa male da un suo giudizio negativo sul mio modo di usare il programma grafico che lui stesso avrebbe dovuto insegnarmi ad usare (impegno silurato con una frase: leggiti il manuale) immaginavo la volta che dimenticava d'azionare il freno a mano e il suo prezioso cavallo d'oro scivolava silenzioso al centro della strada dove un tir a tutta velocità gli tranciava di netto il baule quadrato come un panca.
Da morire dal ridere!
Eppure calcolavo i minuti necessari a fare due battute spiritose alla bella centralinista svedese, salire le scale e dirigersi nel suo ufficio per fingere di dover consultare il campionario nella sala riunioni del capo e incrociarlo "per caso".
Mi bastava salutarlo per resettare le cattiverie e immaginare creativamente il giorno in cui sarei diventata grande e lui non troppo vecchio e potesse finalmente chiedermi di uscire, successe, cinque anni dopo!
Solo allora scoprii che anche lui si emozionava vedendomi e ci teneva ad essere in ordine, che la Volvo era sensibile ai miei vodoo e gliene combinò molte, dall'avere mille problemi al motore fino a costringerlo a sostituirlo, a quella più divertente di bloccare tutte le chiusure che nemmeno il tecnico autorizzato riusciva a sbloccare col codice magico e costrinse il Lord a forzare il tettuccio e infilarsi da lì, abito, cravatta e mantello compresi, spettinando in un sol colpo la sua dignità di cavaliere del PC!
Che veniva da una famiglia modesta, molto simile alla mia, e sopratutto, cosa che lo scagionò completamente, che la Volvo color champagne era esageratamente scontata!!!

mercoledì 1 settembre 2010

Immaginazione creativa.

Tanti anni fa, più o meno nella preistoria, Giuseppe m'agganciò mostrandomi un articolo di giornale che spiegava cos'era e come funzionava l'immaginazione creativa.
Lavoravamo insieme da qualche tempo, era un consulente della ditta per la quale ero impiegata, ma sino ad allora non avevamo trattato argomenti che esulassero dall'ambito lavorativo.
Per me fu' una sorpresa lusingante, sapere che mi aveva pensato leggendo quella rivista e aveva considerato l'ipotesi che io potessi comprendere e condividere l'argomento.
Non era un trattato di fisica nucleare, non ci voleva chissà quale intelligenza, piuttosto propensione alle capacità impalpabili dell'essere umano.
La cosa decisamente più sorprendente fu' che lui potesse interessarsi a questo tipo d'argomento, cosa che ai miei occhi lo rese ancora più affascinante, nonostante il cavallo d'oro, il codino, i modi altezzosi di chi pensa di sapere tutto e... va beh, nessuno è perfetto.
Lessi avidamente l'articolo e sorridendo appresi che mi era servito a dare il nome a qualcosa che già facevo da anni.
Non ricordo cosa dicesse esattamente quello scritto, ma la visualizzazione creativa consiste nell'immaginare gli eventi che desideriamo accadano nella nostra vita affinchè, col potere del nostro desiderio, essi si realizzino.
All'inizio non è facile, se per allenarci pensassimo a un fiore magari la prima volta lo immagineremmo molto semplice come lo disegnano i bimbi, ma con l'allenamento quello diventerebbe il fiore da noi preferito, del colore che amiamo, consegnato da qualcuno a cui teniamo e alla fine saremo così bravi da sentirne il profumo.
Negli anni ho immaginato di tutto, naturalmente chi è dotato di fantasia parte avantaggiato, alcune di queste cose si sono realizzate, altre le ho vissute solo nella mia testa e molte ancora le sto visualizzando con forza, ardore e passione.
Sto facendo un bilancio, ecco cosa faccio il primo giorno di settembre, oltre a mettermi a dieta e fare mille altre buoni propositi che già domani finiranno nel dimenticatoio.
Settembre è un mese difficile, vorremmo che ogni nostra visualizzazione creativa si realizzasse, sarà l'estate che se ne va che ci rende impazienti?

sabato 31 luglio 2010

Nomi


Niente da fare, le labbra s'affezionano a certi nomi, sembra si compiacciono nel pronunciarli e loro, i nomi, s'appiccicano inesorabilmente ai denti, sotto al palato, il suono riecheggia nello stomaco, rimbalza sulle pareti sino a raggiungere il cuore.
Le corde vocali si fanno tenui al solo pensiero di riprodurli.
Quando siamo arrabbiati, urlarli ha l'effetto d'un balsamo che scioglie in noi lacrime d'amore.
Ce li passiamo e ripassiamo sulle labbra, accarezzandoli con la lingua.
Che strano! Liberiamo, pronunciandoli continuamente, i nomi di quelle persone a cui più vorremmo legarci.
Succede talvolta che taluni vengano dimenticati, archiviati per sempre, e capita di nominarli in un tempo così lontano da quando ci parevano musica, miele e volo di farfalle che stentiamo a riconoscerli...quasi potremmo negare d'averli mai pronunciati.
Stonati alle nostre orecchie, perdono ogni magia anche se è impossibile dimenticarli perchè conservano intatto l'amore che ci hanno donato un attimo prima d'andarsene, chi molto e chi poco!
Sono ormai pochi i nomi che sussurro a fior di labbra con piacere, molti li ho semplicemente riposti nel cuore.

giovedì 15 luglio 2010

Waka-Waka

Ogni volta che sento questa canzone penso alla Guinea Bissau, è più forte di me, il mio pensiero torna a tutte quelle volte che, dopo la pausa estiva in Italia, tornavo a Bissau.
Non è necessario che mi concentri molto, sento i motori dell'areo cambiare regime, deglutisco per liberare le orecchie mentre percepisco la discesa rapida e mi preparo incollata al finestrino e poi la vedo e THIS IS AFRICA e improvvisamente TSAMINA MINA EH EH, WAKA WAKA EH EH TSAMINA MINA ZANGALEWA ANAWA AA!
Il ritmo è giusto, mi ricorda il popolo forte e danzante dei guineensi e riesco a rievocare quella sensazione irripetibile dei tamburi che martellano forte nel mio stomaco.
WAKA WAKA EH EH e per tutto l'amore che ho ricevuto in quella meravigliosa terra lo spero davvero THIS TIME FOR AFRICA!
E intanto piango, senza nemmeno accorgermene, per un miscuglio di sensazioni che in qualche modo devo far uscire e Jose, accanto a me in auto, mi guarda sorpreso mentre guida alla volta dell'Ikea più vicina a casa per l'acquisto di due brandine e scaffali per la nuova casa-campeggio.
Andrea e Sergio non se ne accorgono perchè stanno ballando, Sergio si muove sciolto, ancheggia e dondola, in alto gli indici come gli ha insegnato lo zio Enrico quando balla l'afro-music.
Andrea è un po' più rigido, ma canta forte WAKA WAKA "...mamma canta la nostra canzone!" m'incita, ma il mio pensiero è lontano e i miei occhi riescono a sfiorare il Rio Geba, tocco le acacie, respiro l'umidità delle risaie e m'intrufolo nelle tabanke di fango e paglia e poi riprovo quella bellissima sensazione che da allora non ho mai più provato: "Tra poco sono a casa!"
Un tuffo al cuore, da due anni sono tornata definitivamente e non mi sono sentita a casa.
Siamo vagabondi io e Jose viaggiamo tanto e dove decidiamo d'installarci costruiamo e creiamo casa.
La mia casa è il mio santuario sto cercando di sentirmi a casa, sto cercando di mettere radici che mi liberino dalla sensazione d'essere straniera sulla terra, voglio una vita ricca d'amore e amici, tutto questo me l'ha insegnato l'Africa e forse per il resto del mondo è solo il tormentone estivo di quest'anno e per la bella Shakira una canzone commerciale, ma per me è e rimarrà la canzone che risveglia i tamburi nel mio stomaco!!! Africa ti amo!

domenica 4 luglio 2010

Traslochi...


Se vuoi male a qualcuno, auguragli un trasloco!
Erano due anni che vivevamo nelle stessa casa, certo non era grande, nemmeno tanto bella, ma finalmente ero riuscita ad aprire tutti gli scatoloni e fare posto ad ogni cosa ed ora abbiamo preparato altre scatole da trasportare.
Dovessi fare l'elenco dei nostri spostamenti dalla Guinea in poi annoierei chiunque, basti pensare che Andrea ha cominciato a dormire nel suo lettino la stessa notte che ha visto che avevamo montato uno vero, di legno, col materasso e copritesta coordinato.
Lui era piccolo sì, ma non scemo, ha capito subito che quello non era tanto facile da richiudere e montare altrove.
"Questo vostro segno di buona volontà va ripagato e se faccio il bravo, magari, rimarremo nello stesso posto più a lungo."
Ma vivere la vita significa anche lasciarsi guidare dagli eventi e noi siamo facili al trasporto emozionale, non direi proprio un và dove ti porta il cuore ma probabilmente a qualcosa di molto simile.
Non è facile chiudere la porta e lasciarsi alle spalle una vita, ma quando hai il coraggio di farlo almeno due volte, poi ti viene quasi naturale.
Arriva un momento in cui puoi piantare radici, questo l'ho imparato, succede quando desideri, cerchi e trovi il posto ideale.
Non sai se sarà per sempre, ma ti comporti come se dovesse esserlo e allora elabori grandi progetti, sogni ogni minimo particolare e impieghi ogni energia affinchè prenda corpo.
E' questo che noi stiamo facendo ora, abbiamo dato vita ad un sogno e ci stiamo attivando perchè si realizzi e tutti lo possiate vedere e vivere con noi.
E' un pensiero che mi mette le farfalle nello stomaco quello di poterlo condividere con gli amici e tutti colori che desiderano un po' di pace.
"Il mio ristoro dell'anima" ecco come lo immagino ora, dove l'anima va ricoverata, coccolata, curata affinchè torni ad essere splendente e carica d'amore, di buoni pensieri e di quella forza che ci permette di credere che tutto è possibile.
Non sarebbe male, creare un ricovero dell'anima, dove, quando ne esci, ricordi che sognare è facile e ricominci a farlo!
Obiettivo ambizioso, ma non impossibile.

venerdì 18 giugno 2010

Ritorno alla "normalità"

Ecco ce l'ho fatta, non ho proprio pianto a dirotto è scesa solo quache lacrima e mi sembrava che fosse più pesante di quelle che ho versato sino ad oggi e non sono state poche.
Mi piace volare, adoro stare in mezzo alle nuvole fosse per me prenderei l'aereo una volta al mese.
Peccato però per tutte le procedure che devo seguire, i fax che devo assicurarmi che siano stati inviati, notizie sul mio stato di salute che devono certamente essere notificate dal luogo di partenza a quello d'arrivo altrimenti mi lasciano a terra come un qualsiasi pacco.
Per molti sarebbe meglio che me ne stessi a casa, fanculo ai molti, io viaggio.
Sono stata per due anni di seguito in Africa, sei ore di volo con scalo a Lisbona, tre mesi ogni volta in una terra magica e martoriata.
Partendo dal primo mondo ho fatto un elenco mentale delle brutte cose che chiedevo al cielo non accadessero durante la mia permanenza, il colpo di stato era tra quelle.
La scimmia, le papaie, il cielo stellato, l'odore acro della terra rossa, le capanne di fango e paglia, gli aironi nel cielo, il fruscio delle maree, le urla dei bambini che giocano, la scia interminabile di pipistrelli al tramonto, gli alunni del CIFAP e all'infinito potrei elencare l'emozione vissuta ogni giorno.
Qualcuno ha detto di non aver visto l'Africa rimanendo a Bissau, cieco e sordo che non è altro, abituato al benessere e ai documentari pensava forse di vedere la savana coi leoni e gli ippopotami, quella è l'Africa dei safari, l'Africa vista cogli occhi dei bianchi, io ho voluto sentire sulla mia pelle quella della gente che si arrabatta per arrivare a fine giornata con almeno un pugno di riso da mettere in pentola per sfamare figli, nipoti e amici.
Sono seduta accanto a padre Marçelino, l'unico del folto gruppo di preti che ritorna col mio stesso volo che era disposto ad accompagnarmi e aiutarmi.
Dormirà nella mia stanza d'albergo a Lisbona, ritirerà Rebecca, la mia carrozzella ai bagagli, mi sistemerà cuscini e mi ha già avvolta in una calda copertina di pile.
Fa freddo su questo aereo, ho freddo nel cuore perchè lascio Madre Africa e non credo che tornerò mai più, ho freddo perchè nessun'altro prete mi aiuterà allo scalo di Lisbona.
Ho fatto un miracolo io cari signori!
Vorrei urlarglielo, ma poi so che risulterei blasfema e so altrettanto bene che parleranno per giorni e giorni a riunioni, conferenze e prediche della domenica di quanto bene stanno facendo per i poverelli africani dimenticando di essersi rifiutati di accompagnarmi in nome di uno sbarco più rapido, un taxi tutto per loro e la misera valigetta che trascinano per il terzo mondo, sì, perchè si vantano d'aver appreso con gli anni l'arte di viaggiar leggeri, nemmeno si sono resi conto d'avermi fatto sentire così un peso insostenibile.
Io ho appreso l'arte d'affidarmi al prossimo dalle cose più semplici, come ogni volta che qualcuno mi spinge, a quelle più complesse, come partire per Bissau accompagnata da un'amica e non sapere se di lì a tre mesi qualcuno tornerà in Italia.
"Non preoccuparti Marzia, ogni settimana qui ci sono suore che tornano, chiediamo a loro." Mi rassicurò Giuseppe al momento della prenotazione, ed io a credergli sotto l'effetto dell'adrenalina che la mia
terra totem
scatena in tutto il corpo.
Non sono pentita di niente, a volte odio la mia condizione, altre ringrazio la sfigabella d'avermi colpito in pieno perchè nonostante questo io ci provo, provo a realizzare i miei sogni, non rifiuto le sfide nemmeno quelle più minacciose, mi guardo dentro e so cosa voglio.
Sono su questo aereo col mal di schiena e il cuore in sobbuglio e non rinuncio a vivere.
Non tornerò mai più in Africa ne sono consapevole e il bene che ne ho ricevuto è di gran lunga maggiore del male che, secondo tutti gli esperti e specialisti, avrei dovuto patire.
Magari in futuro ne risentirò ma quanti possono dire d'aver sentito il vento urlare il proprio nome a gran voce?
Ogni volta che soffro, ogni volta che piango e m'incazzo io la ricordo gridare:
MARZIA, MARZIA, ABBANDONATI A ME, LASCIATI ANDARE ALLA VITA...
solo allora trovo la forza d'accettare qualsiasi cosa e accettandola la vivo, la combatto e la supero.
Ognuno di noi dovrebbe cercare, trovare e abbandonarsi alla propria Africa e in cuor mio lo auguro a chiunque.

mercoledì 9 giugno 2010

Quando la Morte...

Quando la Morte mi chiama tutto si ferma, è un'amica inattesa, si presenta alla finestra socchiusa e mi dice di aprire che viene da lontano e ha sete.
E' scortese non aprire a qualcuno che non vedi da tanto, quindi la faccio sedere, le preparo qualcosa di buono e attendo che abbia voglia di parlare.
Io di solito mi limito ad ascoltare perchè ha cose molto forti ed interessanti da dire, molte delle quali nemmeno capisco ma ho molta stima di lei e so che mi riferisce quello che dovrei già aver compreso a questo punto della vita e ostinatamente non voglio imparare.
Mi sconvolge la sua visita, come potrebbe essere per un amico che mi svela qualche verità nascosta sul mondo, riflettere fa male in un contesto nel quale è meglio chinare il capo e seguire il branco.
Morte mi sprona a pensare con la mia testa e mi assorbe completamente per qualche tempo.
La sua presenza mi mette soggezione, sovente mi sconvolge ma non riesco ad odiarla perchè ricordo benissimo l'attimo nel quale l'ho accettata, stavo nascendo! Buonanotte ai pensatori...

mercoledì 26 maggio 2010


E' magnifico sentire questo vento sulla faccia, è caldo, lascia tracce di mare sul mio volto.
Sono felice e allo stesso tempo sento forte tensione in tutto il corpo perchè non riesco, non ce la faccio a riempirmi di tutto questo mondo che mi circonda e mi conpenetra allo stesso tempo, me lo impongo: -Forza Marzia, di più, fai entrare più immagini, apriti alle emozioni che questa terra magica ti invia- sì perchè sono come messaggi, continui richiami a sentire, a stare in ascolto, ma non riesco a far stare tutto, ho paura di dimenticare che sono stata così viva.
Cerco di distrarmi dal richiamo di madre Africa che urla a gran voce il mio nome, IL MIO NOME!
Luciana è al mio fianco, a modo suo tenta di tenere la carrozzela ma è consapevole quanto me della cazzata che stiamo facendo, mi guarda e ride, se la conosco un po' starà provando ad immaginare quel che sento.
Jose è al volante, quando la strada glielo permette schiaccia sul pedale e mi fa scompigliare i capelli al vento, così stasera si lamenterà del tempo che impiegherò per pettinarli e togliere i nodi.
Siamo stati alla spiaggia di Quinhamel, abbiamo fatto un pic-nic all'ombra dei manghi e quando s'è alzata la marea ci siamo messi tutti in mutande e abbiamo fatto le foto di rito nell'acqua.
Al ritorno m'hanno convinta a caricare la carrozzella sul cassone del pick-up e viaggiare seduta lì sopra.
Non che abbiano dovuto usare chissà quali argomentazioni, la mia resistenza è stata alquanto debole, in realtà avevo una voglia matta di viaggiare fuori e fingere di essere su di una moto o in bicicletta, cose che non ho mai fatto.
Nonostante sia terribilmente pericoloso sono eccitata, qui mi sento invulnerabile ed è sufficiente un: - Non preoccuparti Marzia, ce la si può fare - di Jose che in un qualsiasi altro posto al mondo nemmeno prenderei in considerazione, per farmi accettare avventure che altrimenti riterrei dei veri e propri attentati alla mia incolumità.
Come quell'altra gita alla periferia di Bissau dove mi sono trovata circondata da preti che mi hanno caricata su di una barchetta a remi e mi hanno condotta a pescare sull'estuario del Rio Geba. Io ho pensato: Marzia, non esiste momento migliore per dichiarare che sei nelle mani del Signore!
E poi che dire di quando i miei pazzi amici m'hanno portata all'interno del mercato di Bandim, su per viette impervie, dove si passava in fila indiana e la gente mi guardava sbalordita come a chiedersi quale dio è stato così presuntuoso da costringere un bianco in carrozzella.
Erano talmente allampanati dalla nostra inconsueta presenza che si sono addirittura dimeticati di derubarci.
La cosa più normale che facevo era starmene in giardino con un macaco psicopatico ai miei piedi.
Una volta m'hanno portato a visitare la missione di Bula, ero così fortemente ispirata da quel luogo e nauseata dal viaggio d'andata in furgone su di una strada farcita di buche che neanche ho aperto bocca alla notizia che avremmo attraversato il fiume in canoa.
Solo la settimana prima uno di quei gusci di noce si era capovolto buttando in mare il suo carico di uomini, galline, maiali e merce destinata al mercato di Bissau.
Cosa farei se succedesse ora? Pensai stretta tra Jose e Jourcy che facevano del loro meglio per farmi sentire comoda e sicura seduta su quella panchetta di legno. Non feci in tempo a pensare alla risposta, il mio interesse andò a Rebecca, la mia carrozzella che malamente veniva trasportata a bordo passando di mano in mano, sopra le teste di tutti e la domanda successiva mi parve scontata e doverosa: cosa farei se fosse Rebecca a finire in mare?
-Abbandonati ai miei poteri- mi sussurrava in continuazione Madre Africa solleticando le orecchie con la brezza dell'alta marea in arrivo, come se non fossi obbligata normalmente a farlo con chi mi spinge - Cazzo mamma Africa io mi abbandono, ma solo la scorsa settimana sono finita col culo per terra!- Eh sì, è toccato a Lucy di farmi cadere, ma questa è un'altra storia...

domenica 23 maggio 2010

Mi presento, sono Marzia.


"Buongiorno dottore"
"Buongiorno, raccontami tutto, al telefono sei stata misteriosa, che c'é?"
"Vede dottore, il mio mistero è presto svelato, ma me lo devo giocare come se fosse una sfida a scacchi e lei è la prima pedina che muovo. Con lei apro la partita e so di dovermela giocare bene se voglio vincerla."
Sapevo che avrei incontrato molte difficoltà, che la maggior parte delle persone mi avrebbe messo i bastoni tra le ruote, ero certa che molti neanche avrebbero provato a capirmi e nonostante questo avrei dovuto spiegare, perchè da una come me la spiegazione è esigita.
Naturalmente l'incontro col mio medico di base si confermò distruttivo come avevo ipotizzato, non sono un'ingenua e nemmeno una sprovveduta e nonostante mi fossi preparata al peggio, tornai a casa con lo stomaco contratto dal nervoso e le lacrime agli occhi.
Ma perchè dev'essere tutto così difficile per me?
Ho un sogno io, caro dottore, ed ora ho la seria opportunità di realizzarlo e te l'ho confidato, non posso dirti che non me ne frega niente del tuo parere medico, mi serve solo che mi prescriva tutti gli esami di routine, al resto penso io.
Queste erano le parole che mi giravano in testa, questo era quello che avrei dovuto dire, ma la diplomazia è bastarda, quando l'impari sei già fregato perchè ne diventi schiavo ed io ero già schiava di molte cose, tanto che questa mi sembrava più che utile.
Infondo ho sempre saputo come sopravvivere, la natura ti da, la natura ti toglie e a me ha dato un cervello che gira a mille e tutti quelli che mi circondano si lasciano ingannare dai propri occhi mentre ricamo intorno a loro splendide tele trasparenti e cristalline.
"Fosse l'ultima cosa che faccio dottore, mi deve aiutare."
Al termine del mio bel discorso il dottorino era sbalordito da tanto ardire tutto compresso in una donnina come me, coraggio o inconsapevolezza?
Vedevo che si chiedeva quale di queste due motori mi muovesse verso quello che lui palesava come l'abisso ma alla mia richiesta d'aiuto barcollò quel tanto che basta per inciampare nel filo argenteo che avevo filato ai suoi piedi e cadde nella mia splendida ragnatela.
-Fosse l'ultima cosa che fa, fanculo, io l'aiuto- immagino che abbia pensato, e poi giù a bastonarmi, a dirmi che però era lo specialista ad avere l'ultima parola e che gli esami da fare erano tanti e che dovevo cosiderare una serie di complicazioni, peraltro tutte doviziosamente specificate.
Sapevo che l'avrebbe fatto per scoraggiarmi, ma soprattutto era chiaro che il bel discorsetto farcito di tante malattie virali,complicazioni respiratorie, motorie e neurologiche era diretto a mia madre, che con le pupille dilatate mi immaginava già in fin di vita.
Così iniziò la mia più grande partita a scacchi che finì con me sull'areo diretto a Bissau.
Dovetti combattere con tanti medici, tutti scettici, tutti contrari, tutti zelanti nel ricordarmi quello che non posso fare, ma non capivano che non avevo scelta, io dovevo farlo, era il sogno della mia vita che improvvisamente da impossibile diventava difficilmente realizzabile.
Tutti da bambini abbiamo sognato ad occhi aperti ed io mi vedevo in mezzo ai bimbi africani a giocare, accarezzarli a portare loro un po' d'aiuto, di serenità e uno che deve fare? Smettere di lottare solo perchè la "sfigabella" ha mortificato tanto il suo corpo da costringerlo seduto su una carrozzella?
Una malattia rarissima è già tanto stronza da non farsi studiare, da non darti l'opportunità di chiamarla col suo nome perchè ancora nessuno gliel'ha dato, ma diciamolo, può rubare l'anima? Può avizzire l'ambizione? Può impedire quel tanto di pazzia che ci rende recidivi al rischio? Io li ho corsi tutti i rischi, senza il minimo dubbio, ed ho passato sei mesi della mia vita nella grande terra magica di madre Africa.
La mia storia è semplice ma penso vi possa interessare, questa ha inizio il giorno in cui il destino mi ha messo sulla strada quei due strambi di Beppe e Luciana.

mercoledì 12 maggio 2010

Di tutte le esperienze che ho vissuto in Africa, ammetto che quella con Houdi è stata tra le più intense e straordinarie.
Luìs amava gli animali, ma non era la persona più indicata ad accudirli e comunque preferiva la parte più divertente dei giochi a quella delle incombenze che comportano.
Quella domenica mattina entrò da noi un bambinetto magro e smunto con al collo questa scimmietta spaventata.
Forse perchè quella era una missione cattolica ma i fatti più significativi accadevano immancabilmente la domenica.
Luìs se ne innamorò a prima vista, lo voleva a tutti i costi ma sapeva che il suo superiore lo avrebbe osteggiato, quindi convinse noi che questo non era vero e poi convinse il capo che il nuovo arrivato era una nostra idea.
Houdi era un orfano, la madre era stata uccisa dai cacciatori e il cucciolo raccolto perchè sapevano che a Bissau c'erano tanti bianchi bambocci disposti a pagare per averla.
Ricardo, il saggio guardiano notturno, scosse il capo appena la vide.
Ci spiegò che, tra tutte, era la scimmia più dispettosa e da adulta la più violenta con gli uomini.
Insomma non solo suonavano i campanelli d'allarme, pareva di essere in un centro commerciale con l'antincendio acceso.
Di lei, la scimmia, ricordo molto.
Ricordo aneddoti ma soprattutto rivedo certe espressioni, sento alcuni abbracci, le carezze e le infinite volte che mi sono sorpresa di come le sue manine fossero uguali identiche alle mie.
Era amica di Argo, il cane, con lui organizzava furti in cucina.
Insieme si dirigevano alla missione, Houdi saliva sul dorso di Argo si agganciava alla maniglia della porta d'entrata e apriva.
Si dirigeva rapido al refettorio e raccoglieva il primo pane dal cesto, non doveva cercarlo sapeva esattamente dov'era perchè tutti i giorni, durante il pranzo, ci studiava seduto sulla finestra.
Poi correva verso la cucina e, sventolando il suo sfilatino sotto il naso della cuoca Paolina che agitava il mestolo imprecando in criolo, sbucava dalla porta sempre aperta del patio dove Argo lo attendeva.
Si nascondevano sotto un albero e Houdi spezzava il pane e lo divideva col suo compare.
Il dispetto più gustoso e divertente lo realizzò a discapito di Monica, bella ragazza dalle forme prorompenti, suo malgrado.
Un pomeriggio la nostra cara amica ci chiamò compostamente allarmata, non voleva che qualcuno lo notasse, ma la scimmia aveva rubato dal filo dei panni stesi un indumento che doveva recuperare.
Così scorgemmo Houdi sul tetto che sventolava un bel reggiseno bianco con pizzo mentre entravano i ragazzi che andavano al campo di calcio per l'allenamento.
Tutti se la ridevano, Monica tentava di mimetizzarsi dietro il banano e Jose, appollaiato sulla scala, cercava di farsi restituire l'imbarazzante bottino mentre il macaco urlava tutto il suo disaccordo...parola d'ordine: senza farsi notare!
Houdi era così, scorgeva debolezze e ne approfittava.
Erano mesi che Jose coltivava il suo orto dietro casa fantasticando sul giorno in cui avrebbe pranzato con una bella insalata mista di cipolle, pomodori e rapanelli e per finire una succosissima anguria, in un paese in cui la verdura la si vedeva col binocolo.
Non vide mai realizzato il sogno, Houdi lo precedeva sempre cogliendo l'attimo esatto in cui avveniva la maturazione di frutta e verdura e zac, come si suol dire: direttamente dal coltivatore al consumatore!
Ebbe un incidente, si infettò un arto, soffriva molto, aveva febbre alta.
Me lo tenni appiccicato per un mese alla schiena, come fanno le mamme africane coi loro piccoli.
Lo curai, lo coccolai e nacque tra noi un legame speciale, tanto speciale da regalarmi il tatuaggio semi-permanente della sua arcata dentale sul mio fondoschiena solo perchè avevo osato sgridare il suo compagno di merende, Argo.
Era un disastro e non amava gli uomini eccezion fatta per me, Jose,suor Paolina alla quale frugava nelle tasche alla ricerca della caramella che preparava appositamente per lui, Ricardo e suo figlio Jango che studiava a Dakar e quando ci veniva a trovare passava intere ore a giocare con lui; poi quando ripartiva Houdi,affranto, saliva sul tetto a piangere per i due giorni successivi.
Con Marzia è sempre stato un "gentilmacaco".
Prendeva dalle sue mani caramelle e frutta con dita leggere, in sua presenza si muoveva lento, se ne stava appollaiato ai suoi piedi come un gattone da compagnia, non urlava, non mordeva, addirittura si faceva accarezzare il volto socchiudendo gli occhi.
L'ho già detto, Houdi aveva le antenne, la debolezza di Marzia era solo quella di non poter sfuggire alle sue angherie, quindi con lei sola si concedeva il lusso di assomigliare in tutto e per tutto ad una di quelle scimmiette da salotto "carino e coccoloso" non fosse stato per quell'unica volta che la sua natura di macaco lo sopraffasse e tentò di spingerle la carrozzella.
Houdi, in questo mondo di macachi travestiti da esseri umani, mi manchi!

domenica 9 maggio 2010

Houdinì, grande mago!


"Houdi, scendi subito, riportali giù! Tati, non piangere ti prego, ora risolvo tutto io...JOSE, PORTA UNA SCALA; DEVI SALIRE SUL TETTOOOOO." Per io intendevo sempre includere Giuseppe.
La giornata era cominciata decisamente maluccio.
Finalmente stava per arrivare la domenica, giornata di riposo e rilassamento, se poi riuscivamo ad ignorare i salti della scimmia che sul tetto si svegliava alle prime luci dell'alba e cantava la sua gioia mattutina prima di lanciarsi a fare dispetti a tutti i vicini di casa, magari riuscivamo anche ad alzarci dal letto alle nove .
Macchè, quella mattina Houdi aveva premeditato tutto.
Una manciata di giorni prima Tati aveva partorito i suoi nuovi cuccioli e stavolta, ormai veterana, si era convinta che lo scatolone fuori dalla cucina non era affatto male.
La sera allattava i suoi piccoli, li lasciava addormentare e verso la seconda metà della notte se ne andava a caccia, o a far baldoria, o magari a qualche incontro di vecchie streghe africane, per poi ricomparire all'alba, giusto in tempo per indossare i panni della candida mammina e accudire i suoi pargoli.
Houdi l'aveva tenuta d'occhio, conosceva i suoi spostamenti e quella mattina era sveglio prima del primo raggio di sole, sapeva di avere pochissimo tempo a sua disposizione.
Sentii i primi rumori provenire dal tetto - E' l'alba - pensai e mi rigirai nel letto.
Poi ne sentii degli altri -Che ci fa già di ritorno Houdi? - e poi corse di nuovo via - Forza Lucy tieni gli occhi chiusi e dormi, ignoralo - mi risistemai sul cuscino.
Passarono soli pochi minuti e la scena si ripetè, ormai sentivo Giuseppe muoversi e immaginavo che anche lui si stesse inducendo a dormire con scarsi risultati.
Improvvisamente Tati balzò sulla finestra della nostra camera e si abbarbicò sulla zanzariera come un geco impazzito, miagolava e piangeva, strabuzzava gli occhi e mi chiamava disperata.
Fummo subito in piedi, tempo di aprire la porta e assistere alla scena in cui Houdi, il macaco dalle natiche pelate, correva come un pazzo con in bocca un gattino, esattamente nello stesso modo con cui li trasportava la loro mamma gatta, veniva nella nostra direzione, Tati cercò invano di fermarlo, lui era decisamente più agile.
Con pochi balzi fu sul tetto e unì il terzo gattino ai due fratellini precedentemente rapiti.
La povera Tatina cercava un appiglio per salire, ma la nostra casetta non aveva grondaie e lei aveva tentato di salire come un ragno ed era chiaro che ora riponeva tutta la sua fiducia in me e Jose.
Risolvemmo l'urgenza mattutina entro l'ora successiva, dopo aver convinto Houdinì a rilasciare gli ostaggi in cambio di un bottino niente male: un mango, una papaia, qualche banana e soprattutto una manciata di caramelle.
Ma il compromesso più difficile lo raggiungemmo con Tati che non ne voleva proprio sapere di ritornare nello scatolone alla mercè di quello scimmiotto psicopatico con problemi di identità.
- Ha rapito i cuccioli per accudirli come se ne fosse stato la madre, ti pare una cosa normale? -
Sembrava mi chiedesse coi suoi occhioni grandi dritti fissi nei miei.
E così, come se non fosse ovvio, Tati riagguantò l'alibi perfetto per traslocare nel nostro ripostiglio col suo scatolone di progenie.
Nei giorni successivi Houdi pareva in stato depressivo, ossessionato dai micetti rimaneva ore appiccicato alle nostre finestre aperte ma munite di zanzariere e sbarre e quando Tati lo scopriva fissarli si scatenava il finimondo.
Il suo morboso interesse si placò il giorno in cui, durante una delle sue scorribande mattutine, tornò con un trofeo che adottò come il peluche preferito.
Era un maialino di gomma rosa con pipetta che suonava ogni volta che lo schiacciava e dal momento che questo accadeva piuttosto frequentemente nei primi tempi, fummo contenti il giorno in cui la sua curiosità lo spinse ad estrarla e il piccolo in adozione rimase muto.
La Tatina quel giorno non fece commenti, strinse a sè i cuccioli rabbrividendo nella sua pelliccia, mi lanciò uno sguardo e si limitò ad alzare un sopracciglio con fare saccente.

lunedì 3 maggio 2010

Tatina Cicova Gatinhos na cama De Marçia


I più la conosceranno come Tati, ma il suo nome completo è Tatina Cicova Gatinhos na cama de Marçia.
Era la mia gattina preferita che ho dovuto corteggiare da lontano durante i primi mesi di permanenza in Guinea Bissau perchè un po' selvatica, poi si è lasciata comprare da una tazzina di latte ed ha varcato la soglia di casa, più tardi, come si conviene in tutte le storie di gatti, mi sono dovuta inventare qualcosa per buttarla fuori.
Eravamo talmente in sintonia che dopo un po' di tempo lei s'è fatta crescere un neo sul naso uguale-uguale al mio!
Succedeva che da qualche ora Tati m'inseguiva ovunque, persino nelle aule dei ragazzi che solitamente si guardava bene dall'avvicinare.
Tutti mi guardavano con al seguito la mia gatta panciuta a termine gravidanza e, se di solito mi prendevano in giro semplicemente per il fatto che ero la professoressa, quel giorno Tati aveva dato loro uno spunto decisamente inconsueto e appetibile.
All'ora di pranzo si spaparanzò in giardino e attese che mi alzassi dal tavolo per seguirmi poi in casa.
Verso il primo pomeriggio cominciò a miagolare ed io capii che era venuto il momento di preparargli un giaciglio confortevole e lontano dal trambusto.
Le avevo trovato proprio una bella scatola e dentro ci avevo messo una morbida coperta, lei mi guardava sistemare il tutto con gli occhi semiaperti e la lingua fuori.
La misi all'interno della scatola, la coprii con uno straccio dal quale poteva veder fuori e me ne andai.
Dopo mezz'oretta ricomparse miagolando alla mia porta, la presi tra le braccia e la riportai nella tana e all'esterno le misi un po' di latte -Magari ha sete.- Pensai.
Mentre la trasportavo sentivo i gattini muoversi nella sua pancia che mi sembrava troppo grossa per la mia piccola gattina.
Comunque la stessa scena si ripetè almeno una decina di volte, poi, disperata, decisi di cedere e posi la scatola nel ripostiglio di casa.
Sembrò subito più tranquilla.
Il giorno dopo per me e Jose era un grande giorno, saremmo andati in aeroporto a prendere la nostra carissima amica Marzia che rimaneva ospite in casa nostra per i successivi tre mesi.
Avevamo preparato tutto nei minimi particolari, letto, zanzariera, armadio nuovo.
Avevamo ridipinto la stanza e appiccicato alle pareti dei girasoli disegnati da noi che Marzia tanto adora.
A generatore spento tutto il mondo si quietava e decidemmo di andare a dormire, non fosse stato per Tati che mi chiamò, pretese che mi sdraiassi sul letto di Marzia e di fronte a me prese a respirare forte con la lingua penzoloni.
Io non sapevo che fare, mi avevano detto che i gatti fanno tutto da soli, ma per la mia amica Tati era il primo parto.
Verso mezzanotte nacque il primo gattino che venne leccato e ripulito da capo a piedi.
Quando ebbe finito Tati si alzò a fatica, lo prese delicatamente tra i denti e me lo portò tra le mani affidandomelo, poi si rimise al suo posto e ricominciò a strabuzzare gli occhi e a respirare forte.
Io ero immobile con quel micetto tutto nero e bagnaticcio fra le mani e sentivo una forte emozione, riuscivo a percepire la sacralità della vita e pensare che fino ad allora non avevo mai pensato a diventare mamma.
Entro la mezz'ora successiva nacque un secondo gattino identico al primo.
Da questa piccola storia nasce il nome completo di Tatina che tradotto potrebbe suonare più o meno così: Tatina ci cova i gattini nel letto di Marzia.
Nei mesi a seguire ebbi la fortuna di vedere Tati alle prese coi suoi cuccioli, era talmente dolce, coccolosa, giocherellona, istruttiva, talvolta severa e dedita alla disciplina della caccia che più di una volta mi sorpresi a pensare che un giorno, avendo dei figli, avrei voluto assomigliare a Tati, come mamma.

Tutto questo augurando ai neonati di qualunque specie di trovare mamme sapienti e, comunque vada, d'incontrare qualcuno disposto ad amarli.

martedì 27 aprile 2010

Chiedi e ti sarà dato.


Certo che, oltre a complicarci la vita, talvolta nemmeno le diamo un po' di fiducia!

Già da qualche giorno mi consumavo in dubbi e domande che spaziavano dal religioso al filosofico.
Mi chiedevo com'era possibile che proprio io, cattolica battezzata, volontaria in una missione cristiana, non solo mi fossi rivolta ad uno "stregone" africano per soddisfare la mia curiosità sul futuro, ma per di più, ora dovessi pregare in una moschea e fare un'offerta.
La domenica era comunque una bella giornata, la scuola era chiusa, il generatore spento e aprivamo i cancelli ai cani che perlustravano tutta l'area della missione a loro piacimento.
Se c'è un giorno in cui le domande di tipo religioso si acutizzano, quello è la domenica.
Ciondolavo da una stanza all'altra senza programmi, avrei dovuto riordinare la casa, piegare i panni asciutti, correggere compiti e addirittura fare il bagno ai cani, ma non avevo alcuna volontà.
Me ne andavo avanti e indietro dalla porta d'entrata spalancata finché non decisi di seguire il consiglio dei miei pensieri che mi invitavano a darmi uno stop e ad attendere seduta sulle scale.
In realtà non sapevo cosa aspettare, ma tra una grattatina a Houdy la scimmia e una carezza alla mia gatta preferita riprendevo il mio dilemma interiore e interrogavo il cielo affinché mi confermasse che ero un'allocca a credere che qualcuno potesse divinare il futuro, e che rivolgermi ad un'altra religione pregando di ottenere ciò che desideravo con ardore fosse una specie di tradimento morale.
Alzai lo sguardo solo perché i cani corsero verso il cancello e vidi profilarsi una vecchia signora.
Camminava lenta, intimorita dai cani e dalla mia presenza di "bianca".
Mi salutò cordiale usando un rispetto che mi imbarazzò, mi chiese come stavo e mi augurò ogni bene, come si conviene in Guinea.
"Vado da San Leonardo Murialdo, porto un'offerta, posso?"
Risposi affermativamente guardando di sottecchi la statua del Santo che era stata da poco restaurata.
Nella fretta di terminarla e cercando di dimostrare che potevamo farlo senza rivolgerci di nuovo all'Italia e ai suoi prodotti da primo mondo, avevamo comprato la vernice al mercato di Bandim sperando che almeno somigliasse all'effetto rame originario, invece il sole impietoso ne risaltava l'effetto finale.
Sembrava un'enorme statua di cioccolato pronta a squagliarsi al sole cocente dell'Africa.
Pregai in silenzio che l'anziana signora non se ne accorgesse e di fatto la sua devozione rese questo particolare insignificante.
Improvvisamente, senza che glielo chiedessi, sentì l'esigenza di raccontarmi la sua breve storia.
"Ero giovane quando mi sposai la prima volta, mio marito desiderava da me un figlio che non voleva arrivare.
Mi lasciò perché non ero capace di far nascere bambini e questo mi procurò tanto dolore e solitudine.
Più tardi ebbi la fortuna di finire sposa ad un uomo molto più vecchio di me ed io pregai tanto per avere quel figlio che prima mi era stato negato.
Mi rivolsi allo stregone del nostro villaggio, feci tante cerimonie e alla fine, disperata, senza sapere perchè, pregai San Leonardo Murialdo con tutte le mie forze.
Qualche mese più tardi nacque il mio primo figlio e ne seguirono altri cinque.
Ogni anno porto la mia offerta al Santo in segno della mia eterna gratitudine."
Rimasi a bocca aperta per tutto il tempo che la vidi pregare a capo chino e depositare le uova ai piedi della statua cioccolatosa.
Se ne andò salutandomi con un disarmante "Che Dio ti benedica".
Solo la caduta di un paio di lacrime mi risvegliò dal mio trance, presi in mano il telefono: "Dottora? Allora domani andiamo alla moschea?"

sabato 24 aprile 2010

I "bus"


Il vecchio scosse il capo, non era certo questo l'atteggiamento giusto per intraprendere l'avventura magica della creazione.
"Avrai un figlio maschio" rafforzò guardandomi negli occhi "ma devi smettere di credere di non poterne avere."
Facile a dirsi, pensai, non era lui che rimaneva deluso ogni mese all'arrivo puntuale del mestruo!
Era così, non avrei mai detto che fosse possibile per me ridurmi in quello stato di assoluta dipendenza ad un desiderio.
Tutto il mio corpo si tese nello sforzo di non credere all'uomo seduto di fronte a me che poteva essere un ciarlatano, ma in silenzio la mia anima esultò.
Nemmeno io la sentii all'inizio, ma i primi echi risuonarono come un tamburo nel mio stomaco qualche minuto più tardi.
Allora il jambacoss mi fece un'altra domanda: "Quando hai lavato la luna l'ultima volta?"
E qui la dottora fu vittima di un quid pro quo che ci portò al delirio totale.
Vidi che fu in difficoltà sulla traduzione, poi balbettò: "Chiede se hai qualche relazione con la luna, insomma...ehm...cosa ne pensi della luna?"
La cosa simpatica è che a me parve pure una domanda sensata!
Ho una predilizione per la Luna, la considero magica e sono legata a lei indissolubilmente da almeno due decenni. La considero donna come la maggioranza degli elementi che racchiudono in se la magia.
La osservo, le parlo, le affido i miei desideri più leggeri che lego a sussurri affidati alle libellule.
Negli anni le ho confidato ogni mio pensiero pur sapendo che la maggioranza delle volte le faccio pena e, quando mi va bene, la faccio ridere.
Mi sono convinta che provi per gli esserei umani una forte passione, come un osservatore che spia e studia un formicaio anche lei ci osserva dall'alto della sua sapienza immacolata e la maggior parte delle volte non capisce perché ci complichiamo la vita.
Possiede molte risposte che offre a chiunque sia disposto a farle compagnia perché, unico neo, soffre di solitudine.
Indice feste a non finire, è lussuriosa, e viziata e non è mai sazia di buona compagnia.
Il problema in quel momento fu: -Come lo spiego tutto questo al Sig.Mago?-
"Sì, la luna mi piace..." risposi semplicemente cercando altre parole che continuavano a sfuggire come anguille contorsioniste tra le mie mani.
La dottora prese a tradurre questa prima frase cercando di sfoggiare la sua espressione più convincente.
"La guardo spesso,mmmh, la interrogo cioèeeee..."
Il vecchio ci osservò con fare sorpreso, credo che cominciò a considerarmi quantomeno un tantino strana, come se giocare con conchigliette e divinare con esse il futuro fosse la cosa più naturale del mondo.
"A mim fala: quando laba lùa ùltimo biàs?" ripetè un po' scocciato.
Solo allora, non so se per paura di vedersi rimpicciolire il cranio, la dottora riprese coscienza di un modo di dire che lei stessa usava normalmente per chiedere alle sue pazienti:
"Quando hai avuto il mestruo l'ultima volta?"
Ahhhhh...ora sì che è pertinente!

giovedì 22 aprile 2010

Figlia della Luna


Ci sono storie che svelano segreti, tolgono veli e chiariscono dubbi, altre invece non fanno altro che alimentare il mistero, quale delle due sia migliore io non lo so, mi piacciono entrambe, ma senza dubbio quelle più interessanti ritengo siano quelle che mettono in luce la pazzia!

Sembrava che le mura della stanza si stringessero quella sera e togliessero il respiro, oltre a rinchiudermi in un cubo claustrofobico.
Non uscivo mai a quell'ora, i miei non me lo permettevano, ma avevano imparato a riconoscere al volo la mia irrequietezza e quella sera non discussero vedendomi indossare il giubbino.
In realtà non andai molto lontano, a meno di cento metri, mi sedetti sola su di una panchina del parco vicino a casa.
Cominciai ascoltando i battiti del mio cuore che schiumava rabbia e contestazione, poi mi ritrovai a spiare nelle finestre dei vicini, sembravano tutti così tranquilli nelle loro belle case accoglienti, questo pensiero mi sottrasse ai miei pensieri storti e finalmente scorsi il cielo.
Là, sopra la mia testa, c'era la Luna piena e come mi aveva insegnato a fare mia madre da piccola, mi divertii a disegnarle gli occhi grandi, il naso alla francese e una boccuccia che tutte le volte mi veniva col broncio da regina.
Quella sera il gioco mi sfuggì di mano e improvvisamente la sentii parlare.
Non fu più la stessa cosa, io accettai il fatto che stavo impazzendo e lei accettò il fatto che non ne avrei fatto parola con nessuno e così nacque il nostro sodalizio che durò parecchi anni.
Chi la conosce sa che è una vera "star", parla solo se la si mette al centro di ogni giorno e le si rende omaggio ad ogni occasione, ma appena la vita ti piega con le sue dure prove e chiede dedizione e amore per la Terra, lei semplicemente ti toglie la parola, e nemmeno ti saluta!
Da allora agogno una panchina che mi faccia alzare il naso al cielo e parlare a ruota libera, oggi me la caverei meglio, sarebbe sufficiente un auricolare spento nell'orecchio.

domenica 18 aprile 2010

I vecchi germani.


Quella mattina faceva un freddo incredibile.
Ero avvolta nella coperta mentre Giuseppe armeggiava con la stufa a legna e Peggy era già alla porta a reclamare la passeggiata mattutina.
Finalmente fuori la cagnolina furbetta zampettava qua e là come una lepre, faceva pipì e rincorreva i gatti del quartiere mentre noi, da dietro, le urlavamo di tornare, inutilmente.
Dopo essersi fatta i fatti suoi tornava zoppicando, a volte a ragione, un gatto l'aveva graffiata ma ben presto capimmo che recitava affinchè l'apprensione del vederla ferita ci facesse dimenticare di sgridarla per la sua disobbedienza.
Quella mattina d'inverno il lago era quasi completamente ghiacciato e noi abbiamo temuto di perdere la nostra amica a quattro zampe.
Tutti i germani che popolavano il parco se ne erano andati da tempo, ma quella coppia attempata e distratta aveva deciso di farsi adottare dai vecchi proprietari del bar, che di reumatismi se ne intendevano quanto loro e potevano comprendere il motivo per il quale avessero rimandato il viaggio.
Così sistemati, col pane in ammollo e un giaciglio pieno di coperte, pensavano d'aver vinto alla lotteria, non fosse stato che quella mattina Peggy li addocchiò tra i canneti secchi e senza pensarci un attimo si lanciò alla loro rincorsa sul ghiaccio e poi CRACK! Successe, era nell'acqua gelida e guiva spaventava mentre loro, le oche, se ne stavano poco più in là raggelate all'ipotesi che il fato avesse potuto voltar loro le spalle.
Jose l'aiutò ad uscire, la portammo di corsa a casa, l'asciugammo col phon e la coccolammo davanti alla stufa...sì, quella volta non la sgridammo affatto.
Nemmeno si ammalò, avevamo temuto il peggio.
Nella nostra testa, per molto tempo, la disgrazia sapeva di ghiaccio stridente, oche in baruffa e guaiti di terrore, non sapevamo ancora che invece era lieve, come il rumore di una foto che improvvisamente cade.

giovedì 15 aprile 2010

In viaggio con Jose.

Siamo in viaggio sull'astronave blu metallizzata io e Jose. In mezzo a noi, sul sedile posteriore, Peggy che, nonostante sia tardi, se ne rimane lì ritta con la lingua penzoloni, è stanca, ha corso all'impazzata sù e giù per la spiaggia ed ora vuole solo godersi gli ultimi rimasugli di quell'eccitamento prima di abbandonarsi al sonno.
Ci spettano almeno un paio d'ore in autostrada e siamo pronti ad abbandonarci a lunghe chiacchiere.
E' sufficiente una piccola bolla di silenzio per trasportarci in alto, ognuno nel proprio guscio e approfittiamo di questa trasparenza per indovinare l'uno i pensieri dell'altra.
"Dove sei?" "Te lo dico solo se poi mi racconti dov'eri tu" compromesso ragionevole.
Comincio a raccontare al mio amico: "Ho superato i campi di erba alta al confine con l'autostrada, oltre le risaie e mi sono vista correre a perdifiato per i campi e poco dopo mi sono fermata di fronte ad un monumento della natura, una maestosa Quercia secolare..." Avrei voluto raccontare altro, ma la reazione stupita di Jose mi costringe a guardarlo mentre guida e con la voce tremante mi dice: " Anch'io...ho visto...una que-quercia..."
Una lacrima scorre, l'emozione trova sempre la strada giusta per arrivare al cuore.
Così abbiamo scovato il nostro posto ideale, per anni ci siamo cullati in esso, in segreto...
Uno sa quando la magia va condivisa, è la magia stessa a comunicarglielo.
Buona notte